venerdì, gennaio 16, 2009

Ricordando De Andrè


Quando mi dissero che De Andrè era morto, 10 anni fa, ricordo ancora la mia reazione incredula. "Come - dissi con una reazione quasi stizzita - è morto?" Non potevo crederci. Solo pochi mesi prima, se non erro a giugno, avevo fatto in tempo a vederlo suonare dal vivo nella splendida cornice del porto di Palinuro. Ricordo ancora la magia di quella notte, la brezza leggera che ti porgeva le sue canzoni compagne del cammino duro della vita con gentilezza inconsueta.

Seduto al centro del palco, gambe accavallate, chitarra e immancabile bottiglia di vino c'era sempre lui, che oramai era già diventato un'icona. Sembrava non potesse morire mai quell'uomo che aveva cantato i reietti, i deragliati, i delinquenti, le puttane bussando forte alle coscienze dei borghesi, dipinti come furfanti travestiti da persone per bene. Come se per una vita la professione di De Andrè fosse stata smascherare le ipocrisie della nostra società.
Si disse di lui in vita che era un anarchico, ma per me è stato semplicemente uno che cercava la verità delle cose. L'ho amato per questo insegnamento, per la libertà di poter scegliere chi frequentre al di là delle apparenze. L'ho amato perchè, pur conoscendone perfettamente i giochi, non mai ridotto l'essenza del mondo a una questione di comprare e di vendere. Perchè nella sua natura di ligure riservato e mugugnoso era capace di slanci improvvisi e questo lo rendeva incredibilmente credibile.

Per me De Andrè è stato modello di vita, l'amico che mi ricorda di crescere senza cedere al cinismo e all'aridità dei "rapporti di società", per cercare vivere il tempo che mi è dato più liberamente possibile, sfuggendo alla schiavitù di giornate sempre uguali e compiere il mio percorso senza "nemmeno un rimpianto".

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